Covid-19: purgatorio, inferno e paradiso

Oggi, in Italia, quasi l’1% della popolazione si trova in isolamento a causa del covid-19. Ognuno sta solo sul cuor delle mura di una stanza, trafitto da un raggio di sole (che fa ingresso dalla finestra) ed è subito sera. Avrebbe, forse, scritto oggi Salvatore Quasimodo. Il tempo, in attesa del tampone definitivo che potrebbe significare libertà o prolungamento della propria detenzione, risulta dilatato. Ne è distorta la percezione. Sembra che non voglia passare.
Il 2021 sarà l’anno del settimo centenario della morte di Dante. Molti o troppi non l’hanno mai letto. Ma stanno sperimentando sulla pelle il suo purgatorio. Learning By doing, diceva Dewey. La prova da superare per entrare in Paradiso sarà il tampone. E lo Stazio, il poeta latino che accompagna Dante per una parte del viaggio in Purgatorio, sarà sostituito dallo smartphone. Strumento potente e in grado di metterci in contatto con chiunque. Un’attesa a volte scandita dall’angoscia che le proprie condizioni di salute possano peggiorare. E il pensiero va automaticamente agli ospedali, una sorta di inferno post moderno che, però, pullula di angeli col camice bianco pronti a salvare ogni vita umana.
"Non perdete ogni speranza o voi che entrate", verrebbe da dire ai medici e agli infermieri che lavorano giorno e notte, curando anche taluni negazionisti, che persino durante il ricovero rifiutano le cure, perché è tutta una farsa e il virus non esiste, per ritornare dopo dieci minuti sui propri passi e chiedere il casco per la respirazione assistita. E poi ci sono quelli che non ce la fanno. Quelli di cui rimane solo un sacchetto coi propri vestiti da consegnare ai propri cari, o da gettare nell’indifferenziato, qualora si sia soli al mondo. Chi muore di covid in ospedale, in ogni caso, lo fa da solo. Scenderà nel gorgo muto. Perché la morte ha avuto i suoi occhi che diventeranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio, come nei versi di Cesare Pavese.
Dalle finestre dell’ospedale si intravede il paradiso svanito. Quello che prima era considerato un campo di guerra. Ora rimpianto. La nostra cara amata/odiata vita quotidiana. Scivolata dalle nostre mani nude. Troppo deboli. Eppure un tempo avevano la pretesa di ritenersi forti. Chi è costretto ad uscire non può far a meno di notare le saracinesche di bar e ristoranti abbassate. Luoghi dove si era soliti andare per svago dopo una giornata di lavoro, per incontrare qualcuno che ci piace, per festeggiare lauree, matrimoni o diciottesimi.
Resta solo un ricordo e una speranza che tutto possa ritornare come prima. Per questo ci si appiglia alle notizie positive, al vaccino (tranne i no-vax), al fatto che i nostri sacrifici possano dare i frutti sperati e abbassare la curva del contagio.
E poi ci sono i più ottimisti che considerano la solitudine dell’isolamento, la loro Beatrice che li ricondurrà di nuovo per le vie del Paradiso ritrovato, ma questa volta pieno delle macerie di tutti i progetti andati in fumo a causa della crisi provocata da un virus che ha fatto tremare settori dell’economia che un tempo pensavamo fossero imperturbabili. Forse è il momento di fermarsi per davvero. Solo l’attimo che basta per far pace con la nostra eterna fragilità.

 https://filodirettomonreale.it/2020/11/17/covid-19


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